17 ottobre 1971 si gioca Catanzaro-Inter ma è molto di più di una partita di calcio, arrivarono da tutta la regione, il “Militare” preso d’assalto e cancelli divelti per entrare.
Nell’estate del 1971, all’alba della storica promozione del Catanzaro in Serie A, una dichiarazione destinata a rimanere scolpita nella memoria collettiva della Calabria cambiò radicalmente il clima attorno a una semplice partita di calcio. A pronunciarla fu Sandro Mazzola, all’epoca trentenne e già icona indiscussa dell’Inter e della Nazionale. La frase – “Catanzaro e la Calabria sono un fienile” – fece rapidamente il giro del Paese, accendendo gli animi dei tifosi giallorossi e trasformando una sfida sportiva in un caso quasi politico.
L’episodio risale ai giorni caldi che precedettero gli spareggi per la promozione in Serie A. In quel contesto già elettrico, le parole di Mazzola furono vissute come un insulto, non solo alla città ma all’intera regione. Mazzola rilasciò quella dichiarazione sull’eventuale promozione del Catanzaro in Serie A, dal momento che la città Capoluogo di Regione non era provvista di aeroporto (quello di Lamezia Terme fu inaugurato nel 1976).
Non aiutò, in quel momento, la voce di un altro grande del calcio italiano, Gianni Rivera, che in maniera più velata sembrò rafforzare quel sentimento di superiorità nordista nei confronti del Sud calcistico.
Il popolo calabrese, tuttavia, reagì a modo suo. Con orgoglio e passione, e quando il 17 ottobre 1971 allo stadio “Militare” arrivò l’Inter, in trentacinquemila gremirono gli spalti, una vera e propria mobilitazione popolare. Trentamila i posti ufficiali, dell’epoca, non furono sufficienti, i tifosi catanzaresi sparsi in ogni angolo della regione, sfondarono i cancelli pur di assistere al match.
La tensione era palpabile, il boato della folla continuo, ma mai degenerato in violenza. Era un popolo unito, infervorato, deciso a difendere l’onore della propria terra anche attraverso una partita di calcio.
Mazzola, accolto da fischi ininterrotti dal primo all’ultimo minuto, scese in campo senza rispondere alle provocazioni. Giocò con compostezza, senza particolari guizzi, ma con il mestiere del veterano. La sua smentita, rilasciata al suo arrivo in Calabria, non bastò a placare il malcontento. “Non ho mai detto quelle parole“, dichiarò, ma ormai era troppo tardi: la miccia era stata accesa e la memoria collettiva aveva già emesso la sua sentenza.
In campo vince l’Inter per 2-0.
A distanza di anni, l’episodio resta emblematico. Non solo per ciò che rappresentò sul piano sportivo, ma per il modo in cui mise a nudo le fratture profonde tra Nord e Sud, anche nel mondo del calcio. Quella frase – vera o presunta – segnò un prima e un dopo nel rapporto tra Catanzaro e il grande calcio italiano. Fu anche il segnale di un Sud che cominciava a rivendicare il proprio spazio, la propria dignità sportiva e culturale.
Oggi, raccontare quella storia significa ricordare quanto il calcio sia specchio della società, capace di esaltare, unire, dividere e – talvolta – ferire. Ma anche quanto, in fondo, la passione popolare sappia trasformare un presunto insulto in orgoglio identitario.
Catanzaro, da quel “fienile”, ha costruito una delle sue pagine più gloriose. E quella folla, quella domenica, non era lì solo per il calcio. Era lì per dire: noi ci siamo.






